martedì 18 ottobre 2011

Le cause della violenza

 



di Vittorio Lussana

(editoriale tratto dal sito www.laici.it)

Nel merito dell’ennesimo episodio di guerriglia urbana, scatenatasi a Roma durante la manifestazione degli ‘indignati’ del 15 ottobre ultimo scorso, non posso che replicare le mie riflessioni di sempre: ben pochi sono i riscontri di carattere sociologico ai quali far riferimento al fine di inquadrare un certo estremismo anarco-insurrezionalista come la forte volontà di alcune ‘avanguardie’ di battersi contro le ingiustizie del sistema capitalistico globalizzato. Questo è solamente uno squallido ‘alibi’ di matrice giustificatoria, dettato dal bisogno di creare attorno a questi gruppi una sorta di ‘alone culturale’ che, in realtà, non ha mai retto il confronto non solo con ogni minima forma di credibilità politica, ma nemmeno con le più semplici logiche dell’antropologia comportamentale. L’estrazione sociale dei componenti di questi gruppuscoli, infatti, è quasi sempre il ceto borghese o quello degli ambienti studenteschi caratterizzati da una forte impronta ‘cattocomunista’. Dunque, non si tratta affatto di operai o di giovani lavoratori in rivolta contro lo Stato, secondo la nota formula ’gramsciana’ della rivoluzione, bensì di miserabili avventurieri che coltivano il sentimento della vendetta, della violenza e della sopraffazione come esclusivo strumento di lotta. Altrettanto poco persuasive sono sempre state tutte quelle letture di matrice ideologica che hanno spesso cercato di ‘disegnare’ questi sovversivi come dei giovani delusi, i quali non riescono a intravedere metodi diversi dalla guerriglia urbana, in una società in cui il ricambio politico e l’alternanza democratica appaiono obiettivi assai poco ‘digeriti’ dal nostro ‘sistema–Paese’. Ma se così fosse, non sorprenderebbe il fatto che formazioni politiche bene organizzate e assai ramificate all’interno del mondo del lavoro – i Partiti della sinistra storica e i sindacati – non sempre riescano a cogliere i diversi cicli di riapparizione del fenomeno, al fine di neutralizzarne la sotterranea ‘continuità di reclutamento’. L’unica reale spiegazione di tali assurde ‘suggestioni’ rimane, perciò, quella antropologica: alcune persone smarriscono la memoria verso ogni coordinata culturale di riferimento (intransigentismo radicale, esigenze di una trasformazione dei rapporti sociali e familiari, necessità di nuove forme di educazione civile) nella convinzione che il disordine e la violenza siano l’unica risposta possibile per il cambiamento di questo Paese, rinunciando aprioristicamente a ‘produrre discorso’, limitandosi all’individuazione di alcuni generici nemici (il sistema bancario, le istituzioni rappresentative e persino le simbologie religiose), assoggettando ogni norma di comportamento senza ‘ancorare’ minimamente le proprie scelte e le proprie idee a una qualsiasi giustificazione idealmente nobile. Il fenomeno è perciò ‘fotografabile’ solo attraverso la formula della ‘degenerazione bellicista’: nell’universo militare non ci si pongono problemi di ‘qualità morale’ delle proprie azioni, poiché non esistono orrori o crudeltà, ma solamente questioni di ‘congruenza’ tra mezzi e fini, un’etica ‘dimostrativa’ tutta legata a un’ossessiva ricerca di visibilità ‘mediatica’, che diviene preponderante rispetto a ogni ‘etica della convinzione’. Alla base di tutto ciò vi è sempre stato un ‘brodo culturale’ totalmente imperniato su un acuto senso di irresponsabilità, sull’idea che si possa predicare senza agire o agire senza dichiarare le proprie intenzioni, che non si paghi mai per nulla, che non si debba render conto a nessuno del proprio operato. E si è sempre delineata un’abitudine alla violenza nel suo doppio aspetto di affermazione di potere e di riconquista di un’appartenenza comunitaria (fare qualcosa di supremamente proibito significa, per questo genere di individui, imboccare una ‘scorciatoia’ che permette loro di allacciare legami che, altrimenti, non saprebbero come stringere in altro modo…). Inoltre, deve essere assolutamente sottolineata la perversa persuasione che quel che conferisce ‘forza’ sia l’elevatezza del ‘livello di scontro’, un’overdose di antagonismo che l’anarchico-rivoluzionario deve forzatamente inoculare nei propri atteggiamenti, poiché quanto più si è ‘duri’, tanto più è elevata la possibilità di vincere. Infine, vi sono ulteriori elementi di non secondaria importanza: una mentalità ‘immediatista’, il rifiuto di ogni etica del lavoro, un linguaggio tutto giocato sul ‘massacro’ della sintassi, sulla ripetizione ossessiva degli slogan, una fragilità psicologica in cui grave si avverte la profonda debolezza verso ogni senso di identità, insieme a una patetica assenza di ‘anticorpi’ contro la paura della morte. In tutto questo, ogni richiamo al marxismo-leninismo ‘duro’ e ‘puro’, al materialismo dialettico, al pensiero operaio, alla lotta di classe, alla dittatura del proletariato o alla stessa cultura anarchica di ‘bakuniana memoria’ risulta totalmente astratto e ideologico: conta assai più l’assorbimento di precise tendenze degenerative della società contemporanea, l’introiezione di ‘figure di crisi’ rispetto alle quali i comportamenti ‘deviati’ si collocano in un rapporto di ‘specularità’. Come non riflettere, a proposito di questo genere di irresponsabilità, alla ritirata storica della borghesia italiana, al suo vile ‘ripiegamento’ nel privato, alla propria indifferenza verso i problemi concernenti la cosa pubblica? Come non cogliere, a proposito degli stereotipi militareschi cui ho fatto cenno, i nessi esistenti tra il bisogno di una vita ‘elementare’ ed eterodiretta con i vari espedienti messi in atto per ridurre ogni complessità sociale mediante tecniche di controllo e di ‘disinformazione’ dalla precisa discendenza autoritaria? Come non chiamare in causa, al di là di quanto si creda o si pensi, il modello liberistico ‘mandevilliano’ teorizzato da Milton Friedman? Come mai nessuno riesce a fare ‘mente locale’, in proposito di ‘autovalorizzazione’ e di rifiuto di ogni principio ‘laburistico’, a quei rivoli di assistenzialismo e di reddito garantito che sono sempre ‘sgorgati’ dal nostro contraddittorio sistema di welfare, che spesso aiuta chi in realtà non ne ha bisogno e abbandona al proprio destino il precariato giovanile, nella più totale assenza di ogni meccanismo di ricambio generazionale in tutti i campi e in tutti i settori del mondo del lavoro e delle professioni? Come non riandare con la mente, in tema di arroganza corporativa, a quei fenomeni di asocialità ricattatoria che dipendono dall’enorme potere posseduto da alcune categorie ‘ristrette’, in un Paese in cui basta uno sciopero delle ferrovie per mettere in ginocchio l’intera cittadinanza? Infine, come non mettere a bilancio, a proposito di afasia e di ‘sterilità valoriale’, il generale impoverimento qualitativo del nostro sistema didattico nazionale? Diciamocelo chiaramente: sono queste le vere cause generatrici di intere schiere di ‘giovani senza passato’, i quali continuano a non sentirsi parte di una Storia troppo diversa dalla loro e che si ostinano a collegarsi ad alcune tradizioni grazie a un lessico da rivoltosi o a grammatiche iperideologizzate. Si tratta di persone che non riescono a elaborare un dignitoso ‘sistema di segni’, le cui uniche forme di elaborazione spontanea discendono da ‘zattere ideologiche di salvataggio’ tanto assolute, quanto incerte. Ecco, dunque, il vero motivo dell’opzione anarco-insurrezionalista: l’idea di una rivoluzione, per questi gruppi di rivoltosi è sempre e assolutamente un concetto ‘fotografico’, meramente ‘statico’. Non si tratta di un qualcosa ‘in divenire’, basato su una serie di trasformazioni graduali da incardinare attorno a un disegno concreto di società ‘rinnovata’, bensì dell’organizzazione di un’autonomia di classe da proteggere con la violenza. Se si vuole veramente capire fino in fondo questo genere di fenomeni, si deve perciò cominciare a cogliere, definitivamente, la dimensione ‘nichilista’ e autodistruttiva degli individui che decidono di aderire alle culture della violenza protestataria e ‘antisistema’ in quanto metodo di lotta, un fattore che pesa in misura assai notevole tra le loro motivazioni interiori. Non si tratta di un nichilismo ‘drammatico’, derivante da forme di disperazione civile alla Pier Paolo Pasolini, bensì da una ‘supponenza’ di natura etimologica in cui il ‘nulla’ non deriva dall’ablazione di sé, ma da una totale mancanza di ogni ’senso delle relazioni’ che si intrattengono, delle azioni che si commettono, degli ambienti che si frequentano. Un universo psicologico in cui non solo non esiste nessuna frontiera tra bene e male, ma persino i sentimenti sono banditi, dove capire e osservare la realtà diviene un qualcosa di noioso, di superfluo, di fuorviante. Da tali caratterizzazioni è disceso, in passato, l’ideologismo ‘dimostrativo’ e la spietata ‘strategia omicidiaria’ delle Brigate Rosse. E fino a quando non riusciremo a elaborare delle risposte soddisfacenti intorno a tali questioni, l’ignoranza, l’astrattezza e la vacua prosopopea continueranno a giocare un ruolo a dir poco ’subdolo’ all’interno della nostra società. Dobbiamo avere il coraggio di urlare in faccia a questa gente che essi non sanno un bel niente della reale composizione della società italiana, degli innumerevoli cambiamenti che in essa sono intervenuti, dei desideri, delle speranze, delle abitudini e dei modi di vita che, oggi, la contraddistinguono, anche al fine di far comprendere alle generazioni future che una piazza messa a soqquadro non corrisponde affatto a un’insurrezione imminente, ma solamente a una forma di idiozia che rischia di ‘inchiodare’ ulteriormente l’opinione pubblica dalla parte di una ‘macchina’ burocratico-corporativa indolente, pigra, totalmente inefficiente.